In questo contributo per Startupbusiness Katiuscia Terrazzani, country manager di Ayming Italia riflette sul mondo della formazione e dei profondi cambiamenti che sta vivendo enfatizzando come le imprese devono assumere un ruolo attivo affiancandosi alla scuola, all’università, alle istituzioni. Ciò in modo particolare quando si tratta di competenze tecnico-scientifiche che sono poi quelle vitali per la nascita e lo sviluppo di startup e di realtà capaci di fare innovazione. La ricerca RiGeneration STEM condotta dall’Osservatorio Fondazione Deloitte ha il merito di portare ancora una volta in primo piano un tema di cui si è spesso discusso in passato, ovvero la distanza che ancora oggi separa in Italia il mondo della formazione da quello del lavoro. L’ambito specifico dello STEM – Science, Technology, Engineering e Mathematics – è forse quello in cui questo scollamento risulta più evidente, nella scarsa capacità del mondo dell’università di produrre sufficienti profili adatti a un mondo del lavoro in continua e costante evoluzione, e nella parallela difficoltà da parte delle aziende di trovare risorse fresche in grado di rispondere a esigenze quanto mai concrete, e spesso molto specifiche. Il problema nasce a monte. Se la media europea vede arrivare alla laurea un giovane su due, in Italia questo rapporto scende a uno su quattro. Questa scarsa disponibilità di giovani qualificati viene ulteriormente amplificata dalla distanza che c’è tra quanto produce il mondo della formazione e quanto invece richiede il mondo del lavoro. Perché si verifica questo scollamento? Le motivazioni sono a mio parere diverse, anche se correlate tra loro. Sicuramente c’è una mancanza nelle competenze di base che vengono offerte a ogni livello dal mondo della formazione. O meglio, c’è da parte del mondo della scuola una scarsa attenzione a quelle che sono le dinamiche reali del mondo del lavoro. La catena del valore formativo non viene sfruttata appieno, preferendo ancora oggi dare più spazio alla teoria e meno alla pratica, di cui le aziende hanno invece un forte bisogno. Anche nelle facoltà tradizionalmente tecnologiche, il legame con il mondo del lavoro non è sufficientemente stretto, con il risultato di formare risorse anche preparate sulla carta ma in difficoltà nell’adattarsi a un ambiente dinamico come quello lavorativo. Le stesse aziende, soprattutto quelle piccole e medie che costituiscono il tessuto produttivo del nostro Paese, sono in difficoltà a indicare con precisione il tipo di competenze di cui necessitano. Il nostro Barometro Italiano dell’Innovazione 2019 ha mostrato un trend interessante in questo senso: le aziende sanno di dover innovare e si dichiarano pronte a farlo, ma nella realtà i budget che destinano all’innovazione dei loro processi sono ancora troppo bassi. Senza contare, soprattutto nelle realtà più piccole, la difficoltà nell’identificare con precisione le direttrici di innovazione. La rapidità dell’evoluzione tecnologica aggiunge complessità in questo senso. Molte aziende non hanno ben chiare le competenze di cui hanno bisogno, perché non hanno chiaro come i loro stessi processi di business evolveranno nel giro di qualche anno, e la stessa cosa, dal punto di vista opposto, vale per chi offre formazione. È difficile oggi individuare con chiarezza le competenze che saranno utili ai laureati tra tre o cinque anni, perché i processi digitali evolvono con una rapidità senza precedenti, che la stessa emergenza covid ha ulteriormente accelerato. Nel giro di pochi mesi, l’Italia ha vissuto una spinta verso il digitale che solamente a inizio 2020 era difficilmente prevedibile. Proprio l’evoluzione rapida della tecnologia e il suo significativo impatto sui processi produttivi porta a una considerazione rilevante, ovvero l’importanza delle cosiddette soft skill, note anche come human skill. Soprattutto in scenari fortemente dinamici come quello che stiamo vivendo, la formazione puramente tecnica può non essere di per sé sufficiente, ma deve essere abbinata a competenze umanistiche trasversali, che vanno oltre la classica formazione accademica o professionale. Si parla di problem solving, proattività, capacità di comunicazione interpersonale, fiducia ed empatia e ancora orientamento alla condivisione, magari con l’applicazione allo stesso scenario di competenze differenti. Si parla di Digital Humanity per indicare questa commistione tra profili e competenze umanistiche e invece una formazione classicamente tecnologica. Oggi, questo mix di competenze è particolarmente difficile da trovare, tanto che tocca alle aziende crearlo in-house investendo sulla formazione interna di risorse spesso provenienti da facoltà STEM. Come è possibile accelerare questo circolo potenzialmente virtuoso e fare sì che il mondo della formazione e quello del lavoro si avvicinino e comincino a parlarsi in modo più stretto? Serve una spinta centrale, che può arrivare sicuramente dal dialogo e dalla collaborazione efficace tra diverse entità, quali Stato, Università, tessuto imprenditoriale e famiglie. Lo Stato può agire come fattore abilitante attraverso gli incentivi all’innovazione, per le aziende e per le università. È necessario stimolare il dialogo tra questi due mondi, in modo che le organizzazioni contribuiscano a creare i profili di cui poi avranno bisogno per innovare e guadagnare competitività. In questo modo, le università potranno creare corsi flessibili, in cui formazione teorica e pratica vadano di pari passo, con vantaggi indiscutibili sia per le istituzioni formative che per le aziende oltre che, nel lungo termine, per l’intero sistema Paese, che non potrà altro che beneficiare di una crescente attenzione verso innovazione e formazione. Dal canto loro, le aziende devono sfruttare al meglio gli strumenti che le istituzioni – nazionali, ma anche europee – mettono a loro disposizione per l’innovazione, approfittando delle risorse potenzialmente disponibili per rivedere i propri processi in un’ottica di futuro, con benefici di lungo termine sia nel business sia nei livelli occupazionali. Per le realtà più piccole questo è forse un passaggio che può apparire a prima vista complesso, per la difficoltà nell’orientarsi tra norme, procedure e requisiti, ma sono proprio queste aziende, per la loro intrinseca agilità, a potersi avvantaggiare nel modo più efficace di strumenti e misure pensate proprio per stimolare l’innovazione e incrementare flessibilità e resilienza. Le università si devono fare promotrici sempre di più di percorsi formativi, dove lo studente viene invitato letteralmente “a sporcarsi le mani”. Incrementare e incentivare ulteriormente dinamiche di alternanza studio-lavoro, dove il dialogo tra azienda e università è la chiave per creare percorsi coerenti con le esigenze effettive dell’imprenditore non solo a livello nazionale ma anche con percorsi all’estero. Anche qui è l’università che diventa attore attivo e consapevole di questo circuito da alimentare costantemente. Infine, non dimentichiamoci del ruolo chiave delle famiglie, che rappresentano il primo anello di questa catena che poi si chiude un po’ su sé stessa. I nostri figli ricevono la prima educazione in famiglia, crescono con o senza gli stereotipi di genere, con una cultura più o meno aperta all’inclusione. E qui, nulla da dire, se non l’auspicio di trasferire più alla curiosità, la voglia di conoscere cose nuove, come la passione nello studio e nel lavoro. Alimentare questo ecosistema scuola-famiglia-azienda-stato non è semplice, tenuto conto dei molteplici attori e reciproci interessi. Il covid ha inoltre amplificato il tutto. Ma partire dalla consapevolezza che ognuno di noi può contribuirne in modo positivo è fondamentale. Photo by Roman Mager on Unsplash
© RIPRODUZIONE RISERVATA